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Capitolo 1. Sette vite in pausa - Greta





Greta guardò fuori dal finestrino. Viaggiare in treno le era sempre piaciuto. Anni prima lo prendeva settimanalmente per l’università, ora ci viaggiava di rado, ma sempre con lo stesso piacere. Amava leggere e l’auto o la corriera non lo consentivano: dopo un po’ le veniva la nausea. In treno era diverso, durante la lettura poteva fare anche una pausa e guardare la vita che scorreva veloce fuori.

Osservò la signora seduta di fronte e si chiese se anche per lei viaggiare in treno fosse piacevole; aveva ricamato a mezzo punto senza sosta da Bologna fin lì, senza mai staccare gli occhi dallo schema o dalla tela. Accanto, una bambina di circa otto anni con

i capelli biondo cenere, lunghi e lisci, stava seduta con le gambe raccolte sul sedile, stile indiano, e giocava con una specie di Game Boy. Concentratissima e attenta, gli occhi costantemente fissi sullo schermo, le sue dita premevano i diversi comandi a una velocità sovrumana. Greta pensò che alla fine del viaggio quella bambina sarebbe stata molto stanca e magari anche un po’ nervosa. O forse no.

Guardava la bambina e a tratti si sentiva vecchia, ma allo stesso tempo era contenta.

Al di là del vetro, ogni forma, essere o sostanza che il treno superava fuggiva via inesorabilmente. Le case si rincorrevano. Dentro di esse vite ed esperienze, oltrepassate e lasciate indietro, un po’ come i suoi pensieri e le sue riflessioni: ci si soffermava un momento ma poi si sentiva quasi costretta ad abbandonarli. Immediatamente.

Nella sua vita, invece, ciò che era riuscita a oltrepassare e lasciare indietro era davvero poco. O forse nulla.

Stava andando a trovare sua madre per il fine settimana. Era metà novembre, le piogge e la nebbia iniziavano a ingrigire i tetti e i muri. Tra meno di un mese sarebbero arrivate le feste. Quest’anno avrebbe fatto l’albero di Natale nella sua nuova casa. Il primo

albero solo suo. Aveva preso in affitto un appartamento non distante dalla libreria

in cui lavorava, in modo da poter andare al lavoro in bicicletta. Era un sottotetto che i proprietari non avevano affittato fino a quel momento e per Greta era perfetto. Aveva comprato l’abete finto prima di partire, era piccolino. Lo avrebbe messo accanto

alla porta di ingresso. Quell’acquisto le aveva coccolato lo spirito; aveva una pila di

libri al posto del comodino, in bagno mancava lo specchio però aveva un albero di Natale.

Pensò che il Natale sarebbe stato un Natale strano. A differenza degli anni passati, non sapeva ancora dove, come e con chi avrebbe trascorso i giorni di festa. Aveva convinto sua madre a raggiungere la cugina in Belgio. Per farla svagare un po’, visto che,

dopo la morte di suo padre, Greta non aveva più visto sua madre pienamente felice, inoltre, saperla sempre sola non la faceva sentire tranquilla.

Era tradizione per loro due trascorrere il giorno della Vigilia e del Natale con la famiglia della sorella maggiore di suo padre, che tornava in paese per le feste. Per abitudine e per affetto, Greta però sapeva che questa era, per sua madre e per lei, l’ennesima

occasione per rivedere chi era lontano e per accorgersi quanto inesorabilmente mancava chi non avrebbero più rivisto.

Avevano annunciato la sua stazione. Raccolse con calma le sue cose, si mise il giubbino e si arrotolò più volte intorno al collo la sciarpa a strisce colorate che sua mamma le aveva fatto a maglia l’anno prima. Sua mamma con i ferri era davvero formidabile.

Tirò giù la valigia rossa con le rotelle dal portabagagli. Salutò l’instancabile ricamatrice e la bimba dalle dita bioniche e si avviò verso l’uscita. Il treno si fermò alla sua stazione. Greta scese i tre gradini e camminò sul binario verso il sottopasso.

Magari avrebbe trascorso il Natale come tutti gli altri anni. Con la zia, lo zio e i suoi cugini; d’altra parte con loro si sentiva amata e a casa. Certo, oltre a suo padre, le sarebbe mancata, come tutti gli anni, anche lei, l’eterna assente a quelle riunioni familiari per le feste comandate. Lei, che mai veniva invitata e mai nemmeno

nominata.

Greta era l’unica nipote ad averle sempre inviato gli auguri a Pasqua e a Natale, e negli ultimi due anni aveva ricominciato ad avere con lei un rapporto un po’ più stretto, seppur basato solo sullo scambio di e-mail e di qualche telefonata. Nonostante ciò, sentiva di volerle bene, sentiva che in qualche modo ancora appartenevano

l’una all’altra.

D’improvviso, Greta seppe con chiarezza con chi avrebbe trascorso le feste di Natale quell’anno.

Quale occasione migliore.

Si sorprese a sorridere, ferma accanto alla sua valigia, una macchia di colore in mezzo al buio sottopasso e al grigiore dell’andirivieni di viaggiatori che lo affollava.

Doveva chiamarla. Doveva farlo prima di raggiungere sua madre che l’aspettava in auto nel solito parcheggio vicino alla stazione.

Con decisione prese dalla tasca anteriore della cartella da lavoro il suo telefonino, lo estrasse dalla custodia di pannolenci che aveva acquistato quell’estate al mercatino, selezionò dalla rubrica il contatto e attese che dall’altra parte il telefono squillasse.

Riemerse dal sottopasso e scrutò il parcheggio. Vide la Seicento di sua mamma nell’angolo vicino all’edicola e la raggiunse. Sentiva il vento sulla faccia. Era arrivato l’inverno. Aprì il portabagagli e intanto sorrise a sua mamma, mise dentro la sua valigia,

lo richiuse, poi fece il giro, aprì la portiera dell’auto ed entrò.

«Ciao, mammina» e le diede il solito bacino sulla guancia.

Sua madre le sorrise a sua volta traboccante di affetto e girò la chiave nel quadro di accensione.

In viaggio verso casa, Greta ripensava a quella telefonata e a quello che lei e sua zia si erano dette, e sorrideva.

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