Quando la fine è un inizio
- disantemarta
- 16 nov 2024
- Tempo di lettura: 8 min

Il suo cellulare, sul sedile accanto a lei, continuava a vibrare e lei continuava a guidare. Gli occhi fissi sulla strada, le mani strette sul volante e la testa strabordante di pensieri. Non avrebbe risposto. Era concentrata solo sulla guida.
Non sapeva verso dove stava guidando. O forse sì.
Era successo un’altra volta. In fondo al suo cuore sapeva che sarebbe accaduto di nuovo ma non ci aveva voluto credere fino alla fine. Era stato un anno in cui la speranza si era prima alimentata e poi, piano piano, aveva iniziato ad affievolirsi e poi era sparita. Avrebbe dovuto aspettarselo, e questo era ciò che le faceva più male: si giudicava una persona razionale, eppure questa volta la sua ragione aveva fallito.
La continua vibrazione del telefono le ronzava nella testa e le penetrava le tempie come una vite, poco alla volta. Accostò, lo prese in mano, guardò lo schermo. Davide. Per un solo attimo provò la tentazione di rispondere, per urlare ciò che aveva dentro, ma capì che sarebbe stato inutile. Lo capì appena in tempo. Lo spense. E ripartì.
Sarebbe andata a prendersi il suo premio. Lo aveva meritato, aveva vinto. Al diavolo il resto. Aveva bisogno di sentirsi un’altra per un po’. Ripensò a quando le era arrivata la mail con la comunicazione del risultato: poetessa Agnese Macri, seconda classificata, categoria A – Poesia. Non poteva crederci. Non aveva mai vinto nulla in vita sua.
Una laurea a pieni voti in lettere, una tentata carriera di giornalista e blogger. Una carriera che non era fallita, semplicemente non era mai decollata. Non ne aveva avuto il tempo. Aveva conosciuto Davide ed i loro progetti avevano preso il sopravvento: dopo poco avevano deciso di andare a vivere insieme e, per contribuire all’affitto e alle spese, lei aveva iniziato con le supplenze a scuola, non era ciò che aveva sognato ma il resto era più importante. E poi era arrivata la sua piccola Alida. Il sogno della sua vita. E così per un anno non aveva più insegnato, anche Davide lo aveva detto: perché prendere una baby sitter che avrebbe prosciugato tutto il suo stipendio? Così era rimasta a casa. E quello era stato il primo passo verso il suo annullamento. Non era più una persona con sogni, ambizioni, obiettivi; era una mamma ed una moglie. Tecnicamente nemmeno una moglie, perché Davide non voleva sposarsi. Loro tre erano già una famiglia a tutti gli effetti, per quale motivo era necessario il matrimonio?
Merda. Aveva sbagliato strada. Accostò nuovamente e fece inversione. Per fortuna il navigatore aveva già ricalcolato il percorso. Continuò a guidare, sarebbe arrivata per le 16:00. Aveva il tempo di farsi una doccia, e poi scendere a cercare un abito e delle scarpe adatte alla premiazione di quella sera. In breve trovò il bed and breakfast prenotato per lei dall’organizzazione del premio. La camera era accogliente e pulita, nell’aria aleggiava un lieve e rilassante profumo di lavanda. Poggiò il borsone riempito in fretta e in furia sul letto. Poi andò in bagno e si spogliò, sentì una fitta in fondo alla schiena si girò a guardarsi allo specchio. L’ematoma era grande ma, per fortuna, questa volta sul viso non c’era nulla. Già, per fortuna.
Non voleva pensare.
Bastava comprarsi un vestito non troppo scollato sulla schiena. Un vestito diverso da quello che giusto l’anno prima aveva scatenato l’ira di Davide la prima volta.
Erano al matrimonio di sua cugina, lei si era preparata con molta cura. Aveva indossato un abito molto scollato sulla schiena, suscitando l’ammirazione di tutti, soprattutto di un vecchio amico di sua cugina, con il quale, tra l’antipasto ed il primo, aveva chiacchierato a lungo, poi lei si era congedata e lui l’aveva riaccompagnata al suo tavolo, sfiorandole con una mano la schiena nuda, come per condurla. Mentre si avvicinava al loro tavolo lei aveva incontrato lo sguardo di Davide che la fissava da sopra il calice del vino rosso: le sue sopracciglia annunciavano la lite. Lui era geloso, non tanto di lei, quanto della sua reputazione: lo infastidiva soprattutto che la gente potesse pensare che lui fosse un allocco che la compagna poteva prendere in giro flirtando con altri. Non era la prima lite di questo tipo, ma era stata la prima che, al rientro a casa, si era conclusa con un colpo in pieno volto. Per fortuna Alida dormiva nel suo lettino.
Al tempo Agnese aveva fatto ciò che andava fatto: gli aveva annunciato che lo avrebbe lasciato. Ma lui era diventato il più pentito degli uomini, aveva detto che aveva bevuto troppo quella sera e aveva chiesto un’altra possibilità.
E lei gliela aveva data. D’altra parte era il padre di sua figlia. Così, non aveva raccontato nulla a nessuno: se aveva deciso di restare con lui non aveva senso parlar male del suo compagno con chi era loro vicino, rendendolo un orco ai loro occhi. Era stato solo un errore. Lui lo aveva capito e lei di questo era certa.
Negli ultimi due mesi quella stessa certezza si era andata spegnendo: avevano ricominciato a litigare parecchio e lui aveva ricominciato ad alzare la voce, fino a quella mattina in cui, di nuovo, si era trasformato nell’animale che era e che sarebbe sempre rimasto. Così, dopo che lui si era recato a lavoro, Agnese aveva lasciato Alida a sua sorella ed era partita.
Il vestito che aveva trovato era molto carino: celeste, semplice, ai piedi aveva preso un paio di sandali bianchi. Il vestito chiaro esaltava la sua pelle dorata dal sole. Raccolse i capelli, un po’ di matita negli occhi e un tocco di lucidalabbra. Eccola qui. La poetessa Agnese Macri.
Era pronta. Si recò a piedi alla sede della premiazione, un palazzo antico vicino al centro. Arrivata sul piazzale davanti al grade portone, si fermò. Ai suoi piedi si era avvicinato un Labrador bianco che alzò il muso a guardarla con occhi grandi, traboccanti curiosità e dolcezza. Si chinò allungando una mano e stava per accarezzargli la testa, quando sentì una voce maschile chiamare il cane. Il suo nome era Bella e quella voce era splendida, pensò immediatamente che sembrava una di quelle dei conduttori radiofonici. Poi alzò di nuovo lo sguardo e vide un uomo sulla quarantina, alto e dal fisico asciutto, venire avanti incontro al cane, che, al suo richiamo, era immediatamente tornato indietro a ricevere coccole e carezze che il suo padrone gli aveva prontamente elargito. “Mi scusi” le disse l’uomo con un sorriso aperto, si accoccolò di fronte all’animale e, parlando piano e continuando ad accarezzarlo con le mani grandi e sottili, gli disse: “Forza Bella, torno presto, devi rimanere con papà solo qualche ora… Mi raccomando, tieni d’occhio il nostro vecchio, non fargli fare troppi sforzi, eh? Torno presto.” Alle sue spalle un signore anziano ma apparentemente robusto osservava la scena e si portò via il cane. Quanto affetto, in un minuto, aveva ricevuto quell’animale dal suo affascinante padrone… Per un attimo si soprese ad invidiare Bella.
L’uomo le sorrise nuovamente ed entrò con passo dinoccolato nello stesso portone in cui avrebbe dovuto entrare lei. Aveva una camicia di lino bianca a coprire le spalle larghe e pantaloni scuri. La sua gradevole sagoma sparì oltre i tre gradini interni all’androne. Lei seguì lo stesso tragitto e si ritrovò in un ordinato cortile interno, molto curato, con l’erba tagliata di fresco. Lo attraversò, e nella stanza successiva si fermò. Tra la folla, capì che c’era un buffet di benvenuto, probabilmente l’aperitivo, vista l’ora.
Si fece strada tra i corpi raccolti nella stanza, emanavano calore. Erano raggruppati in capannelli o intenti in chiacchierate più o meno formali. Lei era arrivata sola, non conosceva nessuno. Si avvicinò al tavolo del prosecco e, mentre il cameriere le porgeva un calice, la raggiunse un uomo un po’ avanti con l’età, con una folta barba bianca, elegante nel suo completo scuro: “Agnese Macri? L’ho riconosciuta dalla foto sul suo CV. Io sono Aristide Bondi, direttore artistico dell’evento culturale del premio. Benvenuta tra noi e complimenti per la sua vincita. Il suo viaggio è stato abbastanza lungo, ha trovato l’alloggio confortevole?” Che bello sentirsi accolta con tale premura. Rispose cortesemente che tutto era più di quanto si aspettasse.
Dopo un breve e gradevole colloquio, Aristide intravide tra la folla l’interprete che avrebbe letto la sua opera dal palco durante la cerimonia di premiazione e le chiese di poterglielo presentare. Così fece: era il giovane professore Alessandro Augusti. Con suo stupore, Agnese si accorse che il prof. Augusti era proprio il padrone di Bella; in effetti, una tale voce non poteva non essere impiegata per altro tranne che per essere ascoltata. Lui la guardò a lungo, con uno sguardo presente e profondo, che non lasciava dubbi sul fatto che provasse ammirazione per lei e dopo aver appreso il suo nome, le sorrise, di nuovo quel sorriso aperto e rassicurante, e si complimentò con lei per la sua opera. Aveva già avuto occasione di leggerla e i suoi versi lo avevano molto colpito. “È una poesia molto bella e molto triste, mi piacerebbe conoscerne l’origine. Ho l’impressione che nasca dall’esperienza di un lutto. Mi sbaglio?” L’osservazione la fece trasalire. Cosa avrebbe potuto rispondere? Non era preparata a dare spiegazioni di questo tipo. “Si, si sbaglia.” Non gli ripose altro. Invece in qualche modo non si sbagliava. La sua poesia nasceva dalla morte della fiducia che riponeva nell’uomo che al tempo amava, fiducia distrutta da un colpo al volto e in un colpo defunta.
La conversazione non andò oltre. Lui non le fece altre domande e dopo un po’ Agnese prese posto in seconda fila. Sulla poltrona per lei riservata. Alessandro sul palco aveva un plico di fogli in mano. Inforcò un paio di occhiali fuori moda ma che rendevano il suo sguardo irresistibile. Sentì una fitta alla schiena, il suo livido sembrava rimproverarla dei suoi pensieri. Le si riempirono gli occhi di lacrime che scesero, fluide.
E se dovessi rivederti ancora
Ogni sillaba di nettare infusa
Dalle mie labbra mai più sentirai.
In un attimo di ira intriso e di spregio diffuso
Mi hai lasciata. Inerme.
Nel volto i segni di un amore distorto.
Lette da quella voce le sue parole sembravano farle ancora più male. Non ebbe il tempo di viverle e di assaporare nuovamente il dolore che le aveva generate perché chiamarono il suo nome e si levò un applauso. Era il suo momento. Si alzò e sul palco ad attenderla c’erano Aristide, il sindaco e Alessandro, il cui sguardo non la abbandonò nemmeno per un attimo. A cena Alessandro riuscì, con abili manovre, a sederle vicino e tutta la sera conversarono piacevolmente, come due vecchi amici. Lui aveva abbandonato la Toscana per gli studi universitari ma tornava sempre a casa da suo padre con tanto piacere. Attualmente era docente alla Facoltà di Lettere dell’Università di Trento ma abitava in un piccolo paese vicino Bolzano; tra un discorso e l’altro le aveva fatto sapere di essere solo, aveva avuto alcune relazioni, nessuna con la donna giusta, a meno di doversi accontentare. E lui non era il tipo.
Più tardi, nella sua camera, Agnese si ritrovò a pensare a lui, l’ultimo intento con cui era andata alla premiazione era iniziare un rapporto con un altro uomo e non voleva creare presupposti per legarsi a nessun altro ma l’immagine del suo sorriso non le concedeva di sottrarsi al pensiero di lui, del suo sguardo presente oltre gli occhiali, delle sue mani che accarezzavano il suo cane. Di quelle stesse mani che a fine serata avevano stretto le sue, entrambe contemporaneamente, e che non sembravano voler mollare la presa, che non volevano lasciarla andare via. Durante la cena si erano scambiati il numero di telefono ma lei sapeva che non l’avrebbe mai chiamato e sicuramente non l’avrebbe fatto nemmeno lui. Adesso doveva solo pensare al giorno successivo e doveva prendere una decisione. Per lei e per Alida. Si addormentò a fatica e riposò male.
Il giorno successivo si svegliò presto. Alla luce del sole, fare ciò che aveva deciso le sembrava più semplice, ma non doveva dimenticarsi che la notte non avrebbe mai smesso di rincorrere il giorno. Chiamò sua sorella e le disse di preparare Alida perché tra circa due ore sarebbe passata a prenderla. Guidò risoluta e, giunta di fronte alla caserma di Polizia, entrò e fece la sua denuncia.
All’uscita, ad attenderla, solo la sua auto e la consapevolezza che non sarebbe finita lì. Lei e Davide avevano una figlia e lui avrebbe sempre fatto parte della loro vita, con la differenza che Agnese non gli avrebbe più permesso di farle del male. Sapeva di aver iniziato una lunga battaglia che avrebbe dovuto combattere da sola. Entrò in macchina e, prima di girare la chiave dell’accensione, tirò un lungo sospiro.
Il suo cellulare, sul sedile accanto a lei, iniziò a vibrare. Guardò il display: Alessandro. Un inafferrabile sorriso sfuggì al suo controllo. Forse non avrebbe combattuto proprio da sola.
“Sì, pronto?”
Mise in moto. Non sapeva verso dove stava guidando. O forse sì.
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