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Mamma o fata?

  • Immagine del redattore: disantemarta
    disantemarta
  • 22 mar 2023
  • Tempo di lettura: 5 min

Aggiornamento: 23 mar 2023


Mi sono recentemente resa conto che, al momento, l’appellativo con il quale vengo chiamata con maggior frequenza (ho contato in media 54 volte al giorno) è sicuramente “mamma”. Preciso che nel conteggio sono incluse le varianti “mammi”, “mammina”, l’abbreviazione “ma’” e l’esclamazione “oh mammaaaa!” . Quest’evenienza mi spinge a raccontare del mio vissuto di maternità, per condividere impressioni ed emozioni e magari per rincuorare chi legge ed è imperfetta come me.

Preciso che la mia bimba è arrivata dopo otto anni di fidanzamento e sei di matrimonio. Non perché avessimo incontrato problemi sulla via ma per due motivi fondamentali. Il primo: la mia precarietà lavorativa (alla quale va abbinata la passione per il mio lavoro e la voglia di riuscire). Il secondo: la nostra voglia di essere genitori non è arrivata prima di allora, forse il mio orologio biologico non ha ticchettato fino a quel momento perché sono sempre stata un po’ malmessa e con la mente sempre troppo in esercizio. Vabbè, fatto sta, che dopo tanti (TANTI!) viaggi, cenette, uscite con gli amici e deliziosi week end fuori porta, abbiamo deciso di far cambiare la nostra vita. Sì, perché lo sapevamo (e non ci sbagliavamo): la vita sarebbe diventata un’altra cosa. Non credete a chi vi dice: “Riuscirete a mantenere lo stile di vita di prima e le vostre abitudini, se siete bravi, riuscirete a ritagliare un po’ di tempo per i vostri hobby”. Scordatevelo. Non è vero. Non prima che vostro figlio/a abbia compiuto 4-5 anni. Lì riuscirete, forse, a ricominciare ad avere una ventina di minuti al giorno per riprendere qualche attività non legata all’unico obiettivo di una sopravvivenza dignitosa. Ma non sarà mai come prima. È una regola d’oro.

Come tutte le regole d’oro, esistono eccezioni che la confermano. In questo caso le eccezioni hanno due nomi. MENEFREGHISMO e NONNI. Esaminiamole una alla volta. La prima: il menefreghismo contraddistingue il genitore che riesce a fare con disinvoltura l’aperitivo mentre suo figlio lecca la parte inferiore del tavolo del locale e contemporaneamente smonta tutti i cuscini del divanetto dove siete seduti (sì, i bambini riescono a fare le due cose contemporaneamente senza alcuno sforzo) mentre il cellulare del menefreghista manda cartoni su cartoni che il bambino ignora. Solitamente i genitori di questo primo gruppo o sono coppie molto giovani o sono quel tipo di genitori che quando tu ti distrai guardando la performance del bambino, ti dicono con una risata e una pacca sul braccio: “Tranquillaaaa, rilassati, si fanno gli anticorpi”. La seconda eccezione: i nonni. Qui so di poter strascrivere. Esiste una (ampia) categoria di genitori che forse non ha mai iniziato a fare il genitore perché aveva i propri genitori ai quali scaricare (“scaricare” è una parola scelta con accuratezza) completamente i propri figli. Personalmente assisto a nonni che accompagnano nipoti a scuola, all’attività pomeridiana, alle feste di compleanno. Che entrano in completa agitazione se si accorgono che a casa loro manca anche un solo ingrediente per la pappa dei nipotini. Recentemente, ho scoperto anche che, in rari casi, esiste la formula congiunta “i genitori del week end” che combina le due eccezioni in questo modo: nonni full time h 24 dal lunedì al venerdi incluso pernottamento e pensione completa e menefreghismo nel fine settimana. Non sto qui a sentenziare sulle conseguenze delle due eccezioni perché non ne ho titolo né diritto.

In tutti gli altri casi la vita dopo un figlio cambia completamente. Cambia il sonno che non sarà mai più lo stesso (il mio è diventato leggerissimo). Cambia la sensibilità per certe situazioni, anche le più impensate (io mi commuovo spessissimo, per ogni cavolata e prima non mi succedeva mai). Cambia la mente perché in ogni occasione il tuo primo pensiero volerà subito a tuo figlio/a. Cambia il rapporto con il tuo partner perché non si è più solo una donna e un uomo che si sono scelti ma una mamma e un papà che hanno scelto. E io penso che quando si sceglie di avere un figlio bisogna garantire che le conseguenze di tale scelta non peseranno mai su di lui/lei. Perché un figlio non chiede di venire al mondo e non c’è assolutamente nulla di male nello scegliere di non avere figli.

E quando arriva un bambino/a iniziano i dilemmi: ciuccio o non ciuccio? Tetta o non tetta? Nanna nel lettone o nanna nel lettino? Cosa farebbe una brava mamma? Durante la gravidanza ci pensi, leggi e ti fai un’idea di come dovrebbero andare le cose. Nel mio caso è stato tutto deciso facilmente perché mia figlia ha scelto lei: “se dal ciuccio non esce il latte per favore levamelo di torno; la tetta mi piace un sacco ma a un certo punto basta, non è indispensabile; io voglio dormire nel lettone e prendermi tutte le coccole che mi spettano, quelle così dolci che non torneranno più … Però a un certo punto divento grande e me ne vado a letto mio, anche perché sennò tu e papà vi ci abituate troppo”. Io l’ho lasciata fare. Perché ho imparato (a volte sbagliando) che bisogna ascoltare i bambini, loro a volte sanno ciò di cui hanno bisogno. Per onestà, e chi mi conosce lo sa, devo dirlo: sono solo queste e poche altre le cose in cui ho lasciato decidere mia figlia. Molti mi giudicano una mamma severa ma io credo fermamente nella teoria Montessoriana che afferma che bisogna dare delle regole per delimitare un campo all’interno del quale un bambino si sentirà libero. Io l’ho applicata inizialmente sulla scia dell’educazione che ho ricevuto, senza conoscerne la teorizzazione, ma ora so che è quanto di più vero ci sia.

L’altro immancabile aspetto della maternità, nel mio caso, è un perenne senso di colpa. Sono una mamma che lavora. Che quando sua figlia aveva quattro mesi è tornata a lavoro e l’ha lasciata ad una tata (la migliore che potessimo desiderare) e ogni giorno non vedeva l’ora di rientrare a casa per stare con la sua piccola, cantarle canzoni e filastrocche e giocare e leggere insieme i libri e le riviste, per poi sentirsi in colpa perché i panni ce li rimettevamo senza stirare e perché le cene erano diventate frugali. Una mamma che quando sua figlia sta male sta a casa con lei e si sente in colpa perché non va a lavoro, che quando la rimanda a scuola appena sta meglio per tornare a lavoro si sente in colpa perché non l’ha tenuta a casa un giorno in più, come fanno le mamme che non lavorano. Che si sente in colpa quando sente quelle mamme dire e scrivere che i figli sono tutta la loro vita, che vivono solo per loro e si accorge che per lei non è così. Lei non è una di quelle nate per fare le mamme, lei ha sempre mille dubbi; sua figlia è la persona più importante della sua vita ma non le basta. Per vivere ha bisogno anche di sentirsi chiamare in modi diversi: ingegnere, amore, prof., sorel, Marta. Il punto è proprio questo: ho bisogno di tutto il resto per essere una mamma migliore e so che non dovrei, ma me ne vergogno. Bisognerebbe avere i poteri, essere le fate delle fiabe per mandare indietro il tempo e vivere le giornate più volte: una volta da mamma, una da moglie, una da professionista, un’altra solo da me. Nell’ultima vita mi leggerei un libro con una tazza di the, mi farei un giro al vivaio, spesa con calma, un po’ di disegno e calligrafia. E non mi sentirei in colpa perché la mamma l’ho già fatta nelle prime 24 ore.

La triste verità è che non sono una fata. Sono imperfetta, forse come tutte le mamme. Ho fatto errori e ne farò ancora. Spero che la mia meravigliosa figlia riuscirà a perdonarmeli quando crescerà e tirerà le somme della sua vita. Per adesso, quando la vedo guardarmi vicino vicino con gli occhi innamorati e le manine che mi abbracciano il collo e la sento dire: “Tu sei la mamma migliore che io volevo, non volevo una mamma migliore di te” capisco che il disordine e la bufera che ha cambiato la mia vita è ciò che di più bello mi sia capitato e che forse Aurora, gli errori, me li ha già perdonati.


 
 
 

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